Recensione di Renata Amoroso
La storia comincia “un giorno d’aprile del 1940” a Orano, in Algeria. Il luogo, ancora sotto la dominazione francese, è una città anonima, dove si vive solo per gli affari, una città senza fiori e senza alberi. Un presagio incombe sulla città: i topi trovati morti a decine, poi a centinaia e infine a migliaia. Non viene dato il giusto peso all’avvenimento, fino a che a morire non sono più i topi, ma gli uomini.
La parola peste viene proferita con paura dai personaggi, come se si potesse morire anche solo pronunciandola. Come avviene per tutti i mali che gli uomini non riescono a controllare, in primo luogo a fare paura è il nome stesso della cosa, eppure è il primo passo per cominciare a combattere.
È facile riconoscersi nell’inquietudine di Rieux che, all’inizio dell’epidemia, attraverso la finestra guarda la sua città. Ripercorre nella sua mente le varie epidemie di peste, risuonano le parole di Procopio e di Lucrezio che raccontano le loro pesti. 10.000 morti al giorno a Costantinopoli, roghi di persone ad Atene, l’orrore che era ancora lontano da Orano. Il rumore di un tram rendeva la città ancora viva, “solo il mare, in fondo alla scacchiera monotona delle case, testimoniava quanto vi è d’inquietudine e di mai placato nel mondo“.
Un romanzo attualissimo, che porta a riflettere sul nostro tempo e sulle nostre inquietudini vive più che mai in questo momento della nostra storia. La letteratura ci consente di dare una voce ai nostri timori, di immaginare scenari peggiori, ma ci da anche un conforto perché se siamo ancora qui a leggere della peste di Atene, di quella di Costantinopoli e di quella di Orano, allora significa che l’uomo ce l’ha sempre fatta e ce la farà anche questa volta.
Il male c’è da sempre nel mondo, però cambia forma. Adesso si chiama epidemia, domani avrà un altro nome. Noi uomini possiamo soltanto fare una cosa: combattere senza arrenderci.
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