di Renata Amoroso

“Che ne diresti se mi tagliassi i baffi?”, afferma il protagonista mentre è a mollo nella vasca da bagno. Ha così inizio la sua inquietante storia. Nessuno intorno a lui si accorge del cambiamento, perché no, lui i baffi non li ha mai avuti, continua a ripetergli la moglie Agnes sgomenta di fronte a tanta insistenza. E’ vicino alla follia? Oppure è vittima di un complotto ordito da sua moglie per sbarazzarsi di lui?

Leggendo il romanzo non ho potuto fare a meno di tornare più volte con la mente verso un altro personaggio letterario in crisi: Vitangelo Moscarda. Il naso troppo grosso, i baffi che non sono mai esistiti. In un certo senso entrambi i personaggi si ritrovano a fare i conti con la loro immagine riflessa in uno specchio che non è la stessa che vedono gli altri. Le crisi d’identità iniziano sempre in bagno (la stanza dell’interiorità) per colpa di una moglie disattenta.

Però a differenza di Vitangelo Moscarda, che ha un nome evocativo e iconico, il personaggio de I baffi non ha nemmeno un nome; ha solo i baffi, oppure nemmeno quelli. E’ significativa la scelta di lasciare il protagonista senza un’identità fin dall’inizio, mentre la moglie ha un nome che viene da subito scandito e ripetuto incessantemente: Agnes. Tornano spesso anche i nomi degli amici, Serge, Veronique, Jérome, Samira. Tutti hanno un nome, fuorché il protagonista. Come si può prendere sul serio un uomo senza nome, sarà sicuramente lui quello pazzo. Così il lettore si trova in questo ginepraio senza soluzione. Chi ha ragione?

Il protagonista non accetta di soccombere al complotto ordito contro di lui, fugge lontano, dall’altra parte del mondo. Ma si può sfuggire alla follia?

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Voto Typewriter & Co: 7