In copertina foto tratta online
La città pugliese di Taranto è simbolo di un drammatico conflitto tra sviluppo industriale e diritto alla salute. Il quartiere Tamburi, adiacente al colosso siderurgico ILVA (oggi Acciaierie d’Italia), rappresenta l’emblema di una ferita ancora aperta, dove la quotidianità degli abitanti è segnata da polveri rosse, sirene industriali e dati allarmanti sulle malattie oncologiche.
– Le origini dell’ILVA
L’ILVA di Taranto nasce nel 1960 come polo siderurgico di interesse nazionale. Pensato per trainare l’economia del Sud e rendere l’Italia autosufficiente nella produzione di acciaio, lo stabilimento diventa negli anni ‘70 il più grande d’Europa. Occupazione e sviluppo economico, tuttavia, hanno un lato oscuro: sin dai primi anni di attività, si diffondono timori legati all’impatto ambientale delle lavorazioni, ma sono percepiti come un prezzo inevitabile per il “progresso”.
– Dalla polvere rossa alla consapevolezza collettiva
La vera presa di coscienza collettiva avviene gradualmente a cavallo tra gli anni ‘90 e 2000. Iniziano ad accumularsi denunce, studi medici e analisi ambientali che mostrano un quadro preoccupante: la presenza massiccia di diossina, benzopirene, metalli pesanti e particolato fine nell’aria, nel suolo e nel cibo. Le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini e alcune voci mediche indipendenti iniziano a collegare direttamente l’attività dell’ILVA all’aumento dei casi di tumore, malattie cardiovascolari e respiratorie.
Nel quartiere Tamburi, il più esposto per la vicinanza agli impianti, si assiste a un progressivo deterioramento della qualità della vita. I balconi si tingono ogni mattina di rosso per le polveri ferruginose che si depositano su superfici, panni stesi, giocattoli. Le scuole vengono chiuse nei giorni di “vento forte” (i cosiddetti “wind days”), quando le emissioni industriali si diffondono più facilmente sul quartiere.
Tra il 2005 e il 2010, diverse indagini mediche condotte da enti pubblici e universitari iniziano a quantificare l’impatto dell’inquinamento sulla salute: aumento significativo dei tumori ai polmoni e alla pleura, leucemie infantili, malformazioni congenite e patologie respiratorie croniche. In particolare, un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità del 2012 documenta un +30% di mortalità infantile a Taranto rispetto alla media regionale, con picchi nel quartiere Tamburi. Uno studio condotto dall’ARPA Puglia nello stesso anno evidenzia concentrazioni di benzopirene fino a 9 volte superiori ai limiti di legge nei pressi del quartiere Tamburi.
La consapevolezza si traduce in mobilitazione: nascono movimenti come Genitori Tarantini, Peacelink, Tamburi Combattenti. Famiglie, medici e insegnanti diventano attivisti, chiedendo verità, bonifiche e alternative economiche sostenibili.
– Il sequestro del 2012 e lo scontro istituzionale
Il 26 luglio 2012 la Procura di Taranto ordina il sequestro di sei aree dell’impianto ILVA, contestando ai vertici aziendali il reato di disastro ambientale. È uno spartiacque: per la prima volta la giustizia riconosce un nesso tra le attività della fabbrica e i danni alla salute pubblica.
In seguito, il Governo italiano interviene con una serie di decreti per garantire la continuità produttiva dell’impianto, definito “strategico per l’economia nazionale”. Questo provoca forti polemiche e spacca l’opinione pubblica tra chi difende il lavoro e chi rivendica il diritto alla vita.
– I parchi minerali e il “sarcofago”: la montagna tossica nel cuore della città
Uno dei luoghi più emblematici del disastro ambientale legato all’ILVA è senza dubbio quello dei parchi minerali, enormi aree scoperte all’interno dello stabilimento dove vengono stoccate tonnellate di minerali ferrosi, carbone e altre polveri industriali. Queste montagne nere e rossastre — visibili perfino da Google Maps — hanno per anni contribuito in modo diretto all’inquinamento dell’aria del quartiere Tamburi, trovandosi a poche centinaia di metri dalle abitazioni.
Con l’azione del vento, le polveri si sollevano e raggiungono strade, balconi, scuole. Gli effetti sono visibili a occhio nudo: finestre annerite, panni sporchi, terra contaminata. Ma soprattutto sono presenti nei dati sanitari, che indicano un eccesso di malattie respiratorie nei bambini della zona.
Dopo anni di proteste, perizie giudiziarie e pressioni da parte della cittadinanza e delle associazioni ambientaliste, nel 2012 l’Autorizzazione Integrata Ambientale ha imposto la copertura dei parchi minerali per limitare la dispersione di polveri sottili. I lavori sono stati completati nel 2019, con la costruzione di una gigantesca struttura in acciaio e PVC: un’opera imponente, costata oltre 300 milioni di euro, soprannominata dalla popolazione il “sarcofago dell’ILVA”.
Un nome evocativo, che rimanda al sarcofago di Chernobyl, e che non è solo una provocazione. Per molti, quel telo bianco che ricopre i parchi non è simbolo di salvezza, ma di resa: un tentativo di contenere l’irreparabile, di chiudere — almeno in parte — un capitolo doloroso della storia della città. Il problema, però, resta più ampio: il suolo, l’aria, l’acqua e la salute collettiva continuano a portare i segni profondi di decenni di esposizione incontrollata.
– Palazzina LAF: simbolo di un sistema tossico
Tra i tanti angoli oscuri della vicenda ILVA, uno dei più emblematici è senza dubbio la Palazzina LAF, l’edificio annesso al reparto del Laminatoio a Freddo. A prima vista, può sembrare solo uno dei tanti fabbricati interni al complesso industriale. In realtà, è diventata il simbolo di una forma più sottile ma non meno devastante di inquinamento: quello umano, relazionale, psicologico.
Nel corso degli anni, la palazzina è stata teatro di episodi gravi di mobbing aziendale. Operai scomodi, sindacalisti, lavoratori che avevano denunciato condizioni di lavoro pericolose o espresso dissenso verso la direzione venivano trasferiti qui, spesso senza compiti reali. Una sorta di “esilio professionale”, in cui si veniva lasciati soli, senza mansioni, in ambienti privi di dignità lavorativa e spesso anche di sicurezza.
È in questo contesto che si inserisce il film “Palazzina LAF” (2023), diretto e interpretato da Michele Riondino. Il film è ispirato a una storia vera, quella di Giacomo Campo, un operaio morto a soli 25 anni in un incidente sul lavoro all’ILVA. Ma la narrazione si concentra proprio su quel luogo simbolico — la Palazzina — raccontandola come una sorta di prigione aziendale in cui si consumano piccole e grandi forme di violenza psicologica.
Riondino, tarantino lui stesso e attivista per la giustizia ambientale nella sua città, ha voluto portare alla luce con questo film una verità poco raccontata: che oltre all’inquinamento visibile, misurabile nei dati ambientali e sanitari, c’è stato anche un inquinamento morale, fatto di silenzi, pressioni e isolamento. Un sistema che puniva chi parlava, che scoraggiava la denuncia, che trasformava il lavoro in condanna.
La Palazzina LAF è quindi diventata, nel tempo, un luogo di memoria civile, oltre che un simbolo di denuncia. Non solo per quello che vi accadeva, ma per ciò che rappresentava: l’abuso del potere industriale in una comunità fragile, ricattata, spesso costretta a scegliere tra lavoro e dignità.
– Tamburi oggi: una resilienza silenziosa
Oggi il quartiere Tamburi resta sotto le stesse ciminiere. Alcune aree sono state sottoposte a bonifica, i parchi gioco sono stati chiusi per precauzione, molte famiglie hanno abbandonato la zona. Ma tanti altri restano, e resistono.
“Taranto Tamburi” è la storia di una comunità che non ha mai smesso di lottare, pur vivendo all’ombra delle ciminiere. È il racconto di una presa di coscienza dolorosa ma necessaria, che ha trasformato cittadini in sentinelle della salute pubblica. Il quartiere Tamburi è oggi un simbolo nazionale del prezzo che non si dovrebbe mai pagare per lo sviluppo economico: la vita stessa.
Il testo è stato generato con l’utilizzo di Azure OpenAI. Il servizio di intelligenza artificiale riferisce le seguenti fonti:
Per la stesura dell’articolo sono stati consultati i principali rapporti dell’Istituto Superiore di Sanità, in particolare lo studio del 2012 sull’impatto sanitario dell’inquinamento a Taranto, insieme ai monitoraggi ambientali pubblicati da ARPA Puglia negli anni 2011–2013. È stato inoltre preso in esame il progetto S.E.N.T.I.E.R.I., condotto da ISS, INAIL e SNPA, che fornisce un quadro epidemiologico aggiornato dei siti contaminati in Italia, incluso quello di Taranto. A livello istituzionale, sono stati utilizzati i documenti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti e i dati del Ministero della Salute.
Dal punto di vista giornalistico, l’approfondimento si è avvalso di inchieste e articoli pubblicati su testate come Il Fatto Quotidiano, La Repubblica, Corriere della Sera e RaiNews, con particolare attenzione ai reportage riguardanti la Palazzina LAF, le denunce degli operai, e le decisioni della magistratura dal 2012 in poi.
Sono state fondamentali anche le fonti civiche e locali, come i materiali diffusi dalle associazioni Peacelink, Genitori Tarantini e Tamburi Combattenti, che da anni documentano quotidianamente l’impatto ambientale e sanitario della fabbrica attraverso testimonianze dirette, foto, mappe e analisi indipendenti.
Approfondimenti

Generazione Magazine
Quella dell’Ilva di Taranto è una storia assurda
“Il quartiere Tamburi di Taranto ha poche caratteristiche: dai palazzi alti e grigi si vede il mare e i palazzi sono alti e grigi perché c’è un’acciaieria che dal 1965 ha ucciso una media di 1650 persone l’anno. La storia dell’Ilva dipende dalle scelte affaticate della Prima Repubblica.“
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A cura di Benedetta Di Placido (Tutti i diritti riservati)
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